Gocce
pesanti, rumorose precipitavano come sassi, risuonando d’improvviso sulle
ondeggianti lamiere del tetto, sul cascinale di fronte alla mia abitazione,
proprio a lato della stanza da letto.
Getti
copiosi d’acqua, simili a gavettoni insolenti rompevano la quiete e
distruggevano irruenti, qualunque cosa potesse essere travolta dal loro impeto.
Oggi,
altre note stridenti riportano la mente a quel ricordo lontano.
Proprio
durante la costruzione di queste unità abitative: un candido complesso
residenziale.
Era
il novembre 1994, di questa struttura erano state completate le mura esterne e
gli accessi alle case dalla rampa dei garage e il tetto.
Ero
a Torino, incollata alle finestre di casa e ammiravo le persistenti
precipitazioni, fiutando nell’aria il tipico odore della pioggia.
Sull’asfalto
del corso, sfavillante a causa delle luci che si riflettevano sul suo manto,
ormai pregno d’acqua, scorrevano fiotti piovani che il terreno non era più in grado
di assorbire…
Ogni
goccia provocava buchi e zampilli, pareva un alternarsi di centinaia di
fontanelle scompigliate che, ricadendo in quel fiume torbido e crescente,
giocassero a formare piccoli mulinelli.
Il
naso appiccicato ai vetri, osservavo: tutto sembrava surreale. I tombini ormai
si rifiutavano di inghiottire altra pioggia.
Penetrare
quelle griglie, era diventato impossibile
e l’acqua mista a residui di fogliame, o qualsiasi detrito raccolto
sulla strada, risaliva “gorgogliando”: sentivo freddo.
«Andiamo
a vedere su al cantiere cosa sta succedendo?» al telefono, la voce un po’
allarmata di mio marito, m’informava che in giro la situazione era piuttosto
critica.
«Sono
pronta, quando vuoi scendo» risposi colta da un senso d’ansia.
Infilato
il giaccone, scesi velocemente, mi stava aspettando dentro la monovolume.
Il
fatto che l’auto fosse più alta rispetto alle altre, mi rassicurò.
Una
nota di colore gli stivali di gomma, che molti avevano riesumato dalle cantine.
Macchie
colorate, immerse dentro una decina di centimetri d’acqua, proteggevano persone
che sgombravano dagli scantinati il salvabile.
Una
quindicina di chilometri a sfidare la corrente fangosa, che proseguiva in senso
inverso al nostro, con una velocità impressionante.
«Sicuro
che sia una buona idea? Potremmo restare bloccati a metà strada. » domandai al
mio coniuge.
«Ora
vediamo, se peggiora la situazione, torniamo indietro. Non ti spaventare!» mi
rassicurò.
Una
visione apocalittica. Una vettura rossa rovesciata a muso in giù nella bealera
costeggiante il manto stradale.
Sembrava
un effetto ottico, ma invece la forza dell’acqua che scorreva in quel canale
d’irrigazione, la stava facendo traballare.
Il
suono del telefono ci scosse: mia cognata, chiedeva di andare a recuperare il
figlio tredicenne alla scuola di calcio del paese vicino.
Loro
avevano tentato, ma erano stati fermati dalla protezione civile.
Cambiando
direzione, c’intrufolammo in quel paese deserto con livelli d’acqua
impressionanti. Arrivava a coprire la metà delle gomme della nostra vettura.
Cercavamo
un percorso meno tortuoso per riuscire a recuperare Dennis.
Finalmente
l’ingresso della cancellata si presentò davanti a noi insieme al ragazzo,
nemmeno troppo preoccupato.
Il
fascino dell’avventura nei ragazzi è superiore al senso del pericolo.
«L’abbiamo
recuperato, stai tranquilla!» rassicurai la madre.
«Però
non venite oltre. Qui ci sono auto che galleggiano, trascinate fuori dai
garage: un diastro!» spiegò in preda all’agitazione.
«Dennis
lo veniamo a prendere domani, se vi va bene.» e chiuse a comunicazione.
Ormai
l’acqua aveva reso la strada un percorso a ostacoli: molto insidioso
percorrerla.
Dentro
di me un’angoscia indescrivibile, solo a immaginare famiglie intere, buttate in
mezzo a una strada e al freddo.
Trovammo
la protezione civile davanti al portone, dovevano liberare il corso e renderlo
agibile almeno da un lato.
Ci
ritirammo a casa reputandoci fortunati per essere usciti indenni da quella
avventura.
Il
nuovo complesso residenziale invece, aveva raccolto acqua nelle tavernette e
nei garage, raggiungendo il metro e mezzo d’altezza.
Disperazione
del geometra: comprensibile.
Per
fortuna le idrovore fecero bene il loro lavoro, quindi la situazione tornò
regolare dopo pochi giorni.
In
fondo un’inezia, rispetto a ciò che provocò in tutta Italia.
In
quel frangente mi sentii particolarmente vicina a chi subì un disastro simile.
Quell’anno
furono più di duemila e duecento i senza tetto in Piemonte e si contarono
settanta morti.
É
successo ancora, per i capricci di un cielo che non sopporta l’arroganza
dell’uomo: Lombardia, Versilia, Genova e molte altre, sino all’anno scorso.
Quante
famiglie distrutte e lasciate nella disperazione dovranno ancora piangere su
queste follie del tempo e dell’uomo?
Eppure,
quando cade la pioggia, leggera, scivolando subdola sui miei pensieri, riesco a percepire fremiti languidi, a
scrivere versi catturati dentro le emozioni dell’anima.
Quanta
similitudine tra il tempo e l’anima nel nostro inconscio!
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