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sabato 23 giugno 2018






Non sei tu

La vita è bizzarra, come un’ombra mascherata dai raggi del sole riflette le emozioni, restituendole alle nostre coscienze. È un mistero, però, il motivo per cui si attenuano gli ultimi bagliori.
Poco a poco vedo una  persona a me molto cara perdersi e non la riconosco più, gli sono estranea.
Il suo cervello smarrisce gli stimoli, le connessioni sono disorientate, i neuroni si deteriorano.
E mio fratello non mi riconosce, chissà, nella sua testa è come se gli volasse uno sciame d’api. Rumori che lo frastornano, a volte urla: forse ha paura.
Ciò che annienta è restare a guardare, impotenti, questa malattia tremenda, portargli via la ragione anzitempo, senza concedermi neppure l’illusione di un ultimo cosciente saluto.

Prima che il buio ti prenda, ma temo sia troppo tardi, vorrei dedicarti un pensiero. Per me è importante scriverti, dirti quanto sia stato grande il bene che ti ho voluto, ma non ho mai pensato fosse rilevante confidarlo a un fratello.
È difficile accettare lo spegnersi dei tuoi pensieri, della loro luce, che tu sappia confusamente riconoscermi. Mi si spezza il cuore osservarti così, gli occhi persi nel vuoto, mentre tenti di ripetere il mio nome.
Sei stato per me un esempio, il mio riferimento, e lo eri anche per le tue figlie, che hanno avuto il privilegio delle tue attenzioni. Poi, a un tratto ti sei smarrito sulla strada del ritorno. Nella tua mente è sceso il buio, ti ha trascinato altrove.
Un luminare, insieme a molti altri specialisti, ha sentenziato un nome: Alzeimer. E tu non sei più tu.
E vorrei parlarti della nostra infanzia, vissuta insieme saltuariamente. Dirti del mio entusiasmo quando ci siamo incontrati per la prima volta, bambini entrambi, confusi, emozionati.
Vorrei dirti quanto ho amato il tuo lato artistico, il portamento distinto, riservato e disponibile, generoso, sempre. Confidarti, come non ho mai fatto, quanto sei stato importante per me, unico anello in grado di collegare le nostre vite di famiglia allargata, fatta di radici ingarbugliate, sparse, che hanno ostacolato, in qualche modo, la frequenza dei nostri incontri. Non mi sono mai arresa a queste difficoltà.
La mia ammirazione si perdeva nelle rare ore trascorse insieme a giocare. Sei sempre stato grande e posato. Vorrei parlarti, farmi raccontare di te, di nostro padre, porti domande rimaste sospese per discrezione. Però, mi guardi accennando una smorfia simile a un sorriso e comprendo che i tuoi occhi vagano altrove.
«Ricordi il mio nome, Roberto?» chiedo, per stimolare ciò che ti è rimasto della memoria.
E con voce quasi impercettibile inizi a balbettare: «Ma, ma…No, non so…»
Percepisco un lieve imbarazzo o è solo una mia impressione, poi ti scivola la caramella dalle mani, hai difficoltà a trattenere le cose. Fumare ti è stato impedito, potrebbe essere pericoloso, non riesci a gestire la fiamma e ti sei bruciato più volte gli indumenti. La cosa ti innervosisce, motivo per cui continui a scartare caramelle, troppe: è un modo per far passare la giornata.
Per fortuna la tua casa ha un grande giardino dove passeggi inquieto, chiedendo ogni minuto: «Andiamo, andiamo fuori.» e il tuo tempo trascorre lento, in qualche modo e ti pesa.
Cosa è successo nella tua mente, non so spiegarlo. Troppo rapido è stato il declino, e non si arresta,  ti sei perso per strada d’improvviso, che sgomento!
Hanno telefonato a tua moglie, tu non ne sei stato capace, e ti sono venuti a prendere: non sapevi trovare la via del ritorno. Poi hai accostato l’auto per chiedere aiuto a qualcuno: per fortuna, poteva finire peggio.
Si erano già accorti a casa, tua figlia e tua moglie, che qualcosa era cambiato dentro di te, sei sempre stato taciturno e questo ha fuorviato le valutazioni. E poi, con quale scusa si sarebbe potuto affrontare un argomento tanto delicato? Un uomo poco più che sessantenne, sicuramente non lo avrebbe accettato.
Troppo presto è accaduto. L’intero mondo intorno a te è crollato. L’azienda, le tue passioni, dipingere per te è diventato complicato, non riesci a coordinare pennelli e colori.
I tuoi quadri mi hanno sempre entusiasmato e, quando mi hai regalato quello raffigurante la composizione floreale, mi sono sentita onorata di poterlo esporre sulle pareti della mia nuova casa.
Il cervello ha subito un black-out, hai perso le informazioni della memoria, si sono mischiate, confuse, non so spiegarmelo, ma è successo proprio a te e mi fa male vederti ancora distinto e prestante, vagare senza consapevolezza, come un bimbo impaurito.
Hai avuto tanto, lo hai ampiamente meritato, sul lavoro e in famiglia: tutto ti è stato sottratto precocemente.
Mamma non sopporterebbe di vederti così, lei stravedeva per te e da bambina io ne ero persino gelosa, ignorando che questo dipendesse dal fatto che non vivevi con noi e non se ne dava pace.
Chissà per quale ragione le raccontavi dei tuoi successi, poi finivi con questa frase:
«Mi rammarico solo di una lacuna: vorrei essere nato intelligente.» Non me lo sono mai spiegato. Un presentimento? Percepivi qualcosa per cui non hai trovato ma risposte?
Spero tu non sia in grado di intendere, me lo auguro profondamente, è umiliante farsi imboccare al ristorante, lasciar gestire le tue scelte, farsi guidare la mano, quando non riesci a portare il cibo alla bocca. Rimediare se ti butti addosso il gelato. Quello non deve mancare mai a fine pasto.
E, quando tua moglie interviene per aiutarti, hai come un gesto di stizza. Allora penso “non è vero che non si rende conto della situazione”. E’straziante per me, ma non c’è nulla che possa fare.
Vorrei accadesse un miracolo, anche se hai superato ormai la settantina, che venisse trovato un rimedio per fermare questo regredire della mente. Magari testando una terapia di nuova generazione con particolari esercizi al computer. In quel caso potremmo ancora raccontarci di noi, di quando si era sereni e giocavamo a tirare di boxe con i guantoni di pelle del nonno.
Invece no, il tempo di dedicarti questi pensieri e sei precipitato negli abissi della malattia, repentinamente e non me ne capacito.
Ora non puoi mangiare da solo e ingurgiti solo cose frullate e bevi l’acqua in gelatina. Non cammini più e indossi il pannolone. Perché? Un declino così improvviso non lo avevo previsto e, nella stanza della clinica dove sei ricoverato, risuonano solo i tuoi lamenti quando gli infermieri ti cambiano.
Mi resta la soddisfazione di portarti in giardino sulla sedia a rotelle, dove stai scomodo: sei troppo alto e posi i piedi a terra nel tentativo di alzarti e fuggire da questa prigione.
Una fitta al cuore appena pronunci le uniche parole che ti riescono chiare: “andiamo” e “casa”.
Il mio amore per te non è sufficiente a migliorare il tuo stato fisico e psicologico: respiro i tuoi peggioramenti giorno per giorno. Ora ti arrabbi, urli e non riesco a comprendere le parole nel tuo grido di disagio, ma appena accosto un bicchiere o un tovagliolo per dissetarti o ripulirti, socchiudi le labbra e la tua bocca diventa simile a quella di un neonato, che risolve ogni suo disturbo poppando.
Tu cerchi la caramella, il gelato o qualsiasi dolcezza sappia concederti un briciolo di piacere, per sopportare la prigionia. Il tuo volto, allora si trasforma, mostri l’espressione della sofferenza e del pianto, reciti addirittura un singhiozzo a supplicare un altro attimo di piacere.
Quanto durerà questa tua agonia? Ora stanno accertando il tuo stato di salute, e io so quanta altra rabbia e sofferenza sarai costretto a subire.
Vorrei trovare la soluzione migliore per te, averla subito a portata di mano, ma la strada della ricerca è lunga e tortuosa e noi non possiamo che offrirti tutto l’amore possibile, pur consapevoli che non sarà sufficiente a riportarti anche solo briciolo di serenità.
Qualche giorno fa hanno parlato in tivù di una nuova sperimentazione. Mi si è subito accesa la speranza di poter recuperare ancora un po’ di noi insieme ai nostri ricordi. Purtroppo, invece, i nostri contatti si sono spenti per sempre, insieme alla memoria delle nostre aliene radici.
Improvvisamente, ieri, te ne sei andato. Sei volato via da questo inferno, te lo leggevo negli occhi, martedì, quando ti ho visto per l‘ultima volta. Le tue grida strazianti non si spegnevano. Però percepivo ancora tanta forza nelle tue strette di mano. Mi scuotevi cercando di farmi capire cosa ti desse tanto dolore. Ormai formulavi solo «Ahia…ahia!» Anche se dentro il tuo grido io immaginavo volessi dirmi «Portami a casa». Ti sei consumato nella speranza venisse esaudita la tua richiesta, sei diventato pelle e ossa in pochi giorni. Non mi è stato possibile accontentarti e adesso non posso più rimediare.
La situazione è precipitata dopo le mie ultime carezze e il mo ultimo bacio e alle ansie di chi ti è rimasto accanto sino alla fine.
Riposati ora, Roberto, vola nei cieli sereni della pace, raggiungi mamma e papà e tutte le persone che in vita hai amato e ti hanno voluto bene. Io ti vorrò bene al di là del tempo e della vita, sempre.

La tua sorellona Marisa (come mi chiamavi tu e pochi altri in famiglia).



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