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mercoledì 11 marzo 2015

LO SCONOSCIUTO ( triller)

 

 

Lo vidi davanti a quel palazzo. Pioveva. Si stava proteggendo sotto il cornicione. Sorrisi, come fosse un’idea peccaminosa che non potevo permettermi.
Attratta dal suo aspetto, giovane e carico di sensualità. Lambito da schizzi d’acqua piovana, assumeva un che di misterioso.
Che cosa diavolo stava aspettando? Almeno mi avesse dato un cenno di considerazione: nulla. Non una piega del volto che denunciasse un’emozione.
Continuai a “puntarlo” come si fosse trattato di una preda, su cui sparare. In quegli istanti dentro di me era esploso un desiderio prorompente. Volevo quell’individuo, carpirne l’attenzione, sentire la sua voce, che già immaginavo sensuale, avvolgermi di frasi provocanti, testare il calore delle sue mani su di me. Si fosse almeno scosso da quella posizione passiva, rendendosi disponibile alle mie volontà …
Seduta al tavolino del caffè della piazza sottostante il mio appartamento, gustavo una cioccolata calda, o meglio ne stavo godendo il piacere.
Le mie papille gustative erano in estasi, proprio come i miei occhi, incapaci di distogliere lo sguardo dallo sconosciuto.
La situazione mutò in modo repentino, tanto che ne restai sorpresa. D’improvviso il giovane si voltò verso di me. I suoi occhi neri e profondi, s’infilarono dentro i miei, superando la barriera di vetro, quasi a perforarla.
Provai un fremito che mi scosse totalmente. Un frammento di tempo abbastanza lungo da tenermi col fiato sospeso: una perversa premonizione.
Credo mi avesse ipnotizzata poiché, senza che me ne fossi resa conto, lo trovai seduto sulla sedia di fronte a me. Oddio quant’era attraente!
<Non ti disturbo vero?> domandò sicuro di sé. “Quale disturbo?” pensai “era ciò che aspettavo!” <Figurati, fuori piove che Dio la manda!> lo osservai in modo minuzioso. Avida, lo divoravo con l’immaginazione.
Cercavo di non far trapelare i cattivi pensieri, rivolti alla sua persona. Certamente mi stavo eccitando all’idea di una conoscenza casuale, iniziata così favorevolmente.
<Non sei di qui vero?> gli chiesi, inebriata  dal profumo di colonia che si portava addosso, amalgamato all’odore penetrante della pioggia: < In effetti sono di passaggio> confidò: <Il mio lavoro mi spinge a continui spostamenti> precisò con gentilezza.
In uno sconosciuto bar alle cinque di pomeriggio di un giorno dal clima impossibile, in compagnia di una donna attraente,  un uomo ha voglia di qualcosa di forte.
<Posso offrirti da bere?> domandò, posando lo sguardo sulla mia tazza ormai vuota.
< Io berrei un Bourbon? Lo gradisci anche tu?> Altro che suadente, la sua voce era un pericolo, mi scioglieva senza nemmeno sfiorarmi: <Ma certo! ti faccio compagnia volentieri, così ci riscaldiamo entrambi!> Lo sguardo che mi rivolse non possedeva nulla di innocente, anzi. Che cosa diavolo era venuto a fare dalle mie parti costui?   Stavo sottoponendo me stessa a una miriade di domande. Ciò che stava accadendo non era affatto un gioco. Lo percepivo chiaramente, ma lo sconosciuto ne era consapevole?
Sorseggiava il suo wisky con distacco,  quasi stesse tramando qualcosa.
<Dovrei darmi una ripulita, ho un appuntamento di lavoro stasera!> esordì pensieroso.
<Dove alloggi?> domandai: <A dire il vero non ho prenotato l’hotel. Conto di rientrare stanotte!> spiegò. “Ecco una buona occasione” pensai fra me e me “Mi faccio avanti?”
<Se a te va bene, abito qui a pochi passi: puoi anche concederti una doccia.> osai, ormai totalmente coinvolta: <Sarei stupido a rifiutare un invito del genere! Come ti chiami?> il suo piano si stava consolidando, era visibilmente soddisfatto: <Sandra e tu?> mi sentivo banale, ma non m’importava affatto. Si alzò afferrandomi la mano: < Alan; adesso andiamo però, si fa tardi!> Intanto si era avvicinato alla cassa a pagare le consumazioni.
La pioggia continuava a battere insistente, pareva penetrare fino dentro alle ossa. Per fortuna solo pochi metri, entrammo nell’androne di casa mia.
< Che piano Sandra?> In  ascensore tenne le lunghe dita sospese, in attesa di premere il tasto giusto: < Ultimo tesoro, vicino alle stelle!> indicai, sempre più immersa dai miei turbamenti, dalle torbide fantasie.
L’umidità assorbita, si stava trasformando in vapore, dentro l’abitacolo dell’ascensore,
rendendo la situazione ancora più infida. Percepivo gli impulsi del suo corpo vicini, percorrermi come una carezza voluttuosa. Restare immobile aspettando di raggiungere la méta? Una tortura imbarazzante.
<Bene, abiti in mansarda, molto bello e intimo qui! C’è un silenzio assordante!> commentò appena entrato. Per un attimo mi sentii persa, non sapevo da dove iniziare: meglio aspettare e scoprire le sue intenzioni.
Tolsi il trench nero, umidiccio. Intanto Alan si era già messo a proprio agio, restando in maniche di camicia. Bianca, incollata sulla pelle scura e sulla muscolatura, aderiva umida di pioggia, causando un contrasto seducente. Un tatuaggio sull’avambraccio  destro: una scritta. Forse un nome? <Se ti occorre il bagno, accomodati pure!> esordii, spezzando quello strano silenzio. Sorrise: <Musica? Permetti che decida io?> prese  alcuni dischi in vinile tra quelli della collezione esposta, scelse e posò sul piatto Giovanni Allevi, non me lo sarei aspettato.
<Sappiamo entrambi perché siamo qui, non negarlo!> disse accostandosi a me:
< Ne sei davvero così sicuro?> replicai sorridendo: < É quello che desideravi da che ero là fuori, sotto il cornicione!> neppure il tempo di rispondere, che mi ritrovai immersa nella sua bocca, travolta da un bacio che aveva del soprannaturale.
Dotato di una sensualità tale da sconvolgermi interamente, annientata perdevo lentamente coscienza. mi accarezzava delicatamente. Credevo di delirare, priva di ogni controllo,  ero io la preda in quel frangente. Il desiderio si fece insopportabile, ma lui esitava, s’intratteneva nella voluttuosità delle sue mosse, una sorta di agonia. “Quale gioco perverso starà mai pianificando?” mi chiesi: mi ribellai.
Eh no! La situazione l’avevo progettata io stessa. A me l’onore di procedere, di impadronirmi nuovamente della scena, non ero io a dover soccombere. Volevo godermi sino all’ultimo istante, ogni mossa calcolata, sino a sentirmi del tutto appagata. 
Il buio si era ormai impadronito del giorno. A sera inoltrata, una giovane donna, in apparente stato confusionale, entrò nel bar della piazza, quello proprio sotto la sua abitazione: <Presto, aiutatemi, un uomo voleva aggredirmi! L’ho colpito!> urlava immersa in un pianto disperato. Indosso un trench nero, sporco di sangue.
<Sandra, che succede? Calmati siedi, chiamo la polizia!> la rassicurò il barista, offrendole un bicchier d’acqua.
Il commissario giunse di lì a poco, per valutare la situazione e svolgere le indagini dovute, seguito dal medico legale.
La bellezza inquietante della donna, seppure in quello stato, lo conquistò subito.
Sandra, accompagnò i due personaggi nella mansarda, teatro del delitto.
La porta socchiusa, s’intravedeva uno spiraglio di luce: proveniva dalla stanza da letto.
Sdraiato e messo di traverso, un giovane uomo. Completamente nudo, le gambe  spenzoloni, giaceva in una pozza di sangue. Il collo trafitto da un grosso ferro da calza, che aveva perforato la vena giugulare. Morte per dissanguamento. Un’ agonia alquanto lenta, secondo le prime valutazioni. 
<Se la sente di raccontare l’accaduto signora?> domandò il funzionario, preoccupato per l’apparente stato di shock della donna. 
< L’ho invitato avendolo visto fradicio di pioggia. Non lo credevo pericoloso!> spiegò in preda alla disperazione: <Appena entrati a casa, mi si è scagliato addosso, tentando di violentarmi!> intanto asciugava le lacrime: <Non vi conoscevate dunque?> aggiunse ancora il commissario: <No affatto, non sapevo chi fosse.> dichiarò con un filo di voce: <Urlavo, ma chi mi avrebbe sentita qui?> nel raccontare scuoteva il capo, incapace di rassegnarsi: <L’ho colpito con il ferro, poi credo di essere svenuta: comprende? Vedere tutto quel sangue… >
< Prosegua se se la sente. Le faccio portare un caffè?> propose l’uomo con garbo:
< Grazie dottore, perché no? Magari mi aiuta!> la voce più rinfrancata.
Intanto gli incaricati rilevarono i dettagli e le impronte per ricostruire la scena.
<Perché ha usato un ferro da maglia per difendersi?> s’informò ancora: <Lo tenevo sempre nel cassetto: sa io vivo da sola.> la sua giustificazione. 
L’ispettore si guardava intorno, carpendo ogni particolare. Sandra intanto notò che era proprio un bell’uomo. Alto e bruno, sulla cinquantina, un tipo interessante.  La donna cominciò a esaminarlo con occhi differenti.
Si portò le mani nei capelli, per dare loro un aspetto più ordinato, poi prese a pizzicarsi le guance, rimediando un colorito più salutare.
Le tracce organiche facevano pensare a un rapporto consumato, dubbia la dinamica.
< La sua biancheria intima e quella della vittima, sono state appoggiate con ordine sulla poltrona, è insolito nei casi di violenza!> fece notare l’incaricato.
< Dottore mi scusi, é stato un gesto involontario, lo so non dovevo toccare nulla!> Ammiccava con l’espressione  pentita: <Da quanto tempo abita qui Sandra? Posso chiamarla per nome?> <Ma sì, naturalmente! Da pochi mesi, prima abitavo in un’altra cittadina a un centinaio di chilometri da qui.> raccontò: <In quella zona bazzicava un serial killer, avevo paura!> Intanto dal bar portarono su due caffè nelle tazzine termiche. Sandra afferrò la sua sicura, aggiunse la bustina di zucchero, mescolando con calma.
Fu allora che il  trench, le si aprì, mostrando le lunghe gambe nude: <Grazie… signor? Qual è il suo nome?> lo sguardo penetrante, giusto per distoglierlo dall’analisi del caso: <Mario è il mio nome, se preferisce chiamarmi così, faccia pure!> Allo stesso tempo le afferrò una mano, un gesto spontaneo: <Mario se preferisci ho del buon Armagnac, magari ci riscaldiamo un pochino!> Lo fissò di nuovo dritto dentro gli occhi cerulei, proponendosi seducente, spogliandosi di tutte le inquietudini e delle menzogne congegnate. Mario ricambiò eloquente quello sguardo: <Dove tieni i bicchieri Sandra?> Domandò, ormai conquistato, abbandonandosi alle sapienti e provocanti, manipolazioni della donna, incapace di resistere alla sua carica sensuale.

Era notte fonda ormai, gli uomini della scientifica stavano rinchiudendo in un grosso sacco di plastica nera, il corpo privo di vita di Alan. L’incauto giovane sconosciuto bello e sfortunato, che poche ore prima, malauguratamente, tentava di ripararsi dalla pioggia scrosciante, sotto il cornicione di un palazzo, a pochi metri da un bar, situato in una ignota piazza cittadina.
Morto accidentalmente dentro a quella anonima mansarda lassù, vicino alle stelle.

 

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