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lunedì 22 febbraio 2016

UNA GIORNATA BISLACCA



Una giornata bislacca.



Ci sono momenti nella routine quotidiana capaci di mutare all’improvviso e non ti spieghi il motivo, segui gli eventi impotente, quasi fossi colpito da un virus letale.
Accade davvero: ti  svegli un mattino qualsiasi e, tutto intorno a te sembra grande, gigantesco: o forse come nelle favole, ti sei rimpicciolito?
Affrontare i doveri giornalieri, gli impegni e il lavoro, sembra diventato difficilissimo.
Eppure, sino al giorno precedente, tutto pareva filare liscio.
Sì, lo ammetti, un po’ di confusione e di ansia nel gestire le giornate ti tormentavano da tempo, anzi: ormai era divenuta una patologia cronica.
Tuttavia la passione, e l’energia li sentivi prepotenti, come la volontà di adempiere agli impegni presi: chi mai avrebbe pensato di venire travolto da questo gigante che è il dovere, tanto da restarne sconvolto?Rasenti la follia, ma una via d’uscita c’è…sempre.


È già mattina. Mi alzo con poca convinzione e cerco di mettere a fuoco le idee.
Forse una doccia mi riporterebbe alla condizione naturale, potrei recuperare gli ultimi neuroni rimasti e proseguire.
La cabina della doccia è diventata una gigantesca stanza con piastrelle in grès grigio perla e il suo getto è talmente potente, che vengo aggredito da dolori allucinanti, assurdi.
Voglio ridurre il volume del getto, ma mi riesce impossibile, non ho la forza sufficiente: ma che mi succede?
Mi risciacquo alla svelta pur di uscire dalla zona delle torture, mentre sulla pelle scivolano via soffici flotte di schiuma viscida.
Il suo profumo mi stordisce, diventa sempre più persistente, invade l’aria che si fa pesante, troppo pesante, quasi non connetto.
Respiro a fatica… mi avvicino alla finestra per dare fiato a quest’improvvisa apnea... Non riesco a girare la maniglia, è bloccata e tutti i tentativi restano vani.
Torno indietro lentamente per uscire dal bagno e inciampo nel tappetino di spugna…
 “accidenti chi mi vuole così bene oggi?”
Vivo la caduta al rallentatore, la mia riflessione echeggia nella testa come un suono rimbombante, non ho padronanza delle mie mosse e batto il capo contro lo stipite della porta: “che botta!” esclamo risollevandomi.
Percepisco che il bernoccolo sta crescendo di volume in perfetta sincronia con il dolore; sono frastornato e stordito, ma anche furibondo per questa situazione grottesca.
Un’improvvisa tosse stizzosa e persistente si aggiunge al mio catastrofico quadro.
Sono nudo come un verme e tento di rialzarmi; mi appendo alla maniglia dì acciaio satinato della porta e finalmente sono di nuovo in piedi.
La mia testa è confusa e vedo annebbiato, ma forse è il vapore acqueo.
Il getto della doccia continua imperterrito a far defluire acqua e, schizzando sulla base di ceramica, getta all’esterno quantità di liquido non indifferenti.
Cammino dentro una sorta di palude grigio piombo.
Ho i piedi in ammollo, come in una pubblicità: “splish, splash”: che disastro!
Continuo a vedere tutto immensamente sproporzionato. La schiuma si è miscelata ai vapori formando una sorta di pellicola lattiginosa, ma non m’importa, si leverà.
Sento vibrare il cellulare, non riesco a ricordare dov’è, seguo la suoneria: nooo!
È in bagno sul davanzale della finestra; troppo rischioso, non voglio cadere un’altra volta.
Devo asciugare il pavimento, l’acqua sembra inarrestabile.
Prendo del ghiaccio e lo metto in un canovaccio, poi direttamente sul punto colpito. Dolore fastidioso, lo sopporto solo pochi istanti poi, con stizza, lo getto nel lavandino della cucina: “ma chi se ne frega…” mi dico.
Il cellulare suona ancora, non ho la forza di concentrarmi. Decido di non rispondere.
Afferro un pentolino dal pensile della cucina: magari una tisana mi rimette in sesto,
accendo il fornello.
Nello studio il suono delle notifiche del pc richiama la mia attenzione: eh no, basta! Che stress, lasciatemi in pace!
“Porca miseria!: dimenticavo il blog.” Devo leggere un sacco di roba.
Correggere gli esercizi, scrivere una recensione e rispondere alle mail entro stasera.
Oddio, non ce la farò mai! Sono distrutto, spossato.
Mi risveglia dal torpore il suono del campanello: “chi sarà mai?”
Sono così confuso da aprire senza domandare: è l’inquilina del piano di sotto, carina.
Mi guarda incredula e non dice una parola.
Il punto di domanda resta sospeso per qualche secondo, poi azzardo:
«Dimmi Sara, hai bisogno?» Lei mi sorride.
«Mi stai allagando casa…lo sai?» il suo sguardo basito persiste.
«Sì, scusa, è successo un casino. Adesso asciugo!» prendo strofinacci e quant’altro possa assorbire liquido e li butto a terra: avrei dovuto agire prima, me ne rendo conto.
«Aspetta ti do una mano!» aggiunge la ragazza molto carinamente.
“Aspettavo l’occasione per invitarla, di certo non in una situazione così.”penso io.
« Ale, se metti qualcosa addosso, mi togli dall’imbarazzo.» spiega candidamente Sara.
“Ecco il motivo dello sguardo allibito, sono un’imbecille lo ammetto!”
Arrossisco come un ragazzino al primo bacio e m’infilo l’accappatoio.
«Scusami, non sai cos’è capitato oggi: che figura! » la osservo, lei è bella, angelica e mi sorride: “Sto forse sognando ?”
Sara si avvicina, mi guarda e, senza preavviso, mi regala un bacio dolcissimo.
Ovviamente dimentico tutto, anche la mia tisana e cedo alla sua dolcezza.
Poi si alza e mi prende la mano, io fremo, dentro sono tutto un bollore, potrei esplodere.
A questo punto penso di essere investito da un improvviso e irrimediabile stato di follia.
«Vieni, se scendiamo ti faccio vedere: sul mio soffitto ci sono bolle, bolle ovunque.»
Scendo trascinato dalla sua mano, morbida e calda, sono scalzo e lascio le impronte dei piedi bagnati, lungo i gradini, senza rendermene conto.
Sara apre la porta e, contemporaneamente, un rumore fragoroso fa vibrare il pavimento sotto di noi, ci guardiamo investiti dal terrore.
«Dimmi che non è vero Sara!» quasi la supplico con lo sguardo.
«Vorrei, ma mi sa che è così.» risponde preoccupata.
Sono rimasto chiuso fuori, lo spostamento d’aria ha causato un altro problema. Mi arrendo, basta.
La mano di Sara è l’unica cosa che mi offre la sensazione di essere vivo su questa terra:
mi conforta.
Appena entro in bagno, mi rendo conto che il guaio è consistente, da una delle bolle, cominciano a precipitare odiose, quanto regolari, goccioline d’acqua.
«Non mi resta che chiamare i pompieri.» le dico con un filo di voce.
«Aspetta, telefono al custode: ha le chiavi di riserva, ricordi?» m’informa serafica.
«Finalmente una buona notizia: chiami tu per favore?» non sono nelle condizioni di spiegare.
Sara posiziona un secchio sotto la perdita d’acqua e mi regala un altro bacio, al volo.
Resto di pietra e, non fosse stato per il campanello, sarei rimasto così, come una statua, ancora a lungo.
L’accappatoio che indosso non mi copre completamente, è slegato e il portiere mi guarda con l’espressione schifata, quasi fossi un maniaco esibizionista.
Sara prende le chiavi e, sempre tenendomi per mano, torniamo al mio appartamento.
Il portinaio ci segue curioso, con l’espressione un po’ libidinosa: la sua immaginazione credo abbia superato il lecito.
Non lo ricordavo, però fortunatamente, avevo chiuso l’acqua della doccia, gli strofinacci avevano assorbito a sufficienza: insomma, il disagio maggiore era nel bagno di sotto.
«Se crede vengo su ad asciugare bene.» si propone l’ometto, con l’espressione beota rivolta verso Sara.
Mi piazzo davanti, in segno di protezione: il mio primo gesto ragionato.
«Grazie Gaetano, faccio io, non si preoccupi.» lo rassicuro con tono deciso.
«Signorina Sara, se ha bisogno mi chiami pure.» insiste l’idiota.
Mentre lei racimola altri stracci, accompagno gentilmente l’omino focoso alla porta.
«Se n’è andato?» mi domanda lei, evidentemente si era persa le ultime battute.
«Per nostra fortuna sì: lo hai visto? Sbavava!» sottolineo infastidito.
Lei ride, è bella come una melodia di Litz.
Spengo il gas. Il pentolino era praticamente asciutto, sono arrivato in tempo per fortuna.
Accendo la Nespresso.
«Ci facciamo un caffè?» le propongo.
Sara porta addosso un profumo che sa di mare e di sole, mi pervade e mi stordisce, più di quello che è successo nell’ultima ora.
La faccio mia con gli occhi, non riesco a controllarmi; lei lo intuisce, arrossisce un po’ e si avvicina.
Questa volta il bacio ci porta lontano, su altri pianeti la stringo che di più non potrei.
Un bacio che resterà tatuato dentro per entrambi, qualunque cosa possa succedere in futuro.
Al diavolo il caffè! Lei si lascia andare, freme e la mia follia ha una sapore differente ora: è fantastica.
Le carezze si mescolano, l’atmosfera si surriscalda, lasciamo che ci guidi la passione: è troppo bello, indescrivibile.
«Dlin dlon, dlin dlon…insiste il campanello della porta.»“ma non voglio rispondere”penso io.
«Alessio sono io, mamma: mi apri? So che ci sei, me l’ha detto Gaetano!» grida per farsi sentire.
«Fatti offrire il caffè da lui allora: io ho da fare!» le rispondo a gran voce dalla camera.
La sua risposta svanisce dentro la cadenza accelerata dei nostri palpiti e dei sospiri.
Mi barrico nella stanza dei miraggi insieme a Sara: tutto il resto può aspettare.




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